Stavo preparando materiale
divulgativo per l'Associazione Changamano" (Solidarietà), e volevo inserire un
aneddoto di cui non ricordo l'origine.
"Un etnologo al
lavoro in uno sperduto villaggio della foresta amazzonica ad un
certo punto decide di ritornare in patria e lo comunica al
capo-villaggio. Costui gliene chiede il motivo e alla scoperta che
l'etnologo vuole andare a procurarsi altre matite avendo finito la
sua scorta, gli chiede di cosa sono fatte le matite. Saputo che le
matite sono fatte di legno e di grafite non capisce perché
l'occidentale, che si vanta di essere più operoso di loro, non
utilizzi gli alberi della foresta e la grafite che si trova sotto il
vicino monte per fabbricarsi le sue matite."
Questo mi ha
ricordato che quando ero ancora studente universitario avevo
tradotto un breve racconto in cui si descrive con amarezza la
povertà e, soprattutto, l'abbandono in cui vivono gli abitanti di un
villaggio immaginario, ma uguale a molti di quelli reali: "gli
abitanti di questo villaggio si coprivano di povertà, mangiavano
povertà, ma camminavano su una ricchezza", diamanti: Wasubiri
kifo (In attesa della morte, lett. "Coloro che attendono la
morte"), scritto da Euphrase Kezilahabi, prima del 1974.
Sono
riuscito a ritrovarlo nel caos del mio studio e oso proporvelo:
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